Anzi, si potrebbe azzardare sostenendo che la mancanza di una tendenza definita vada ormai considerata, con un voluto gioco di parole, la tendenza principale. Sempre in attesa di essere smentiti, possiamo rilevare come una simile constatazione si sia sempre più affermata nell’ultimo decennio: sebbene frequenti siano stati i tentativi di etichettare un nuovo “ismo”, in realtà questo non è avvenuto. Numerosi e variegati quindi i percorsi estetici 2018, dall’organicismo al ritorno del classico, dalla ricerca di purezza a quella di fantasy, e, all’interno di ciascun filone, troviamo designer provenienti dai contesti culturali e geografici più diversi. Segno evidente che i creativi di tutto il mondo ragionano ormai in termini di “tribù di riferimento” che, senza sosta, si spostano in un mercato globale ove i localismi appaiono, almeno dal punto di vista creativo, perdenti.
Risultano ormai totalmente prive di senso quelle definizioni che tendevano a identificare “stili nazionali”, postulando ad esempio un design italiano contrapposto a quello scandinavo piuttosto che a quello tedesco. Oggi, con buona pace dei puristi, non sarebbe impossibile incontrare un designer tedesco che disegnasse per un’azienda greca secondo un lessico di memoria scandinava (per concretizzare l’esempio potremmo citare la sedia “Halla” di Catharina Lorenz | Steffen Kaz per Anesis). Allo stesso modo la parola etnico viene, nel mondo del design, declinata in un sogno alla Marco Polo che mescola, come spezie, Africa e Oriente, Lapponia e Perù (da Gervasoni, Paola Navone propone “Carve”, una poltroncina scavata a mano nel mogano). Questi fenomeni di polimorfismo (ma impazzano anche i termini “inclusione” e “crossing culturale”) appaiono in continua inarrestabile crescita dall’inizio del nuovo millennio e, come abbiamo detto, non è chiaro se ci sarà dato vedere
nuovamente, in un futuro prossimo, un movimento unitario e duraturo quali sono stati, nelle rispettive epoche, il funzionalismo, il “bel design”, il post-modern e il minimalismo.
Pur sottolineando con forza questa assenza di unidirezionalità possiamo tuttavia evidenziare alcuni elementi comuni a tutte le tendenze in atto, in primis il recupero del
valore narrativo degli oggetti, della loro capacità di creare un’atmosfera e di vivere assieme in uno spazio che è visto come un cabinet de merveilles, come lo scrigno di un collezionista. Raro, infatti, il riferimento al cosiddetto white-cube, sostituito piuttosto da “stanze” (il concetto di stanza supera ormai di gran lunga quello di loft!) sature di colori nelle palette dei rosa/rossi e in quelle dei grigi/petrolio. Mobili, lampade, oggetti necessariamente si adattano a questo mood, “scaldando” la loro immagine con legni sofisticati, finiture preziose, tessuti avvolgenti e soprattutto una tattilità molto particolare.
Gli arredi 2018 vogliono essere accarezzati, con l’occhio, ma anche con la mano. Non sono presenze neutre, piuttosto simulacri parlanti, capaci di esplicitare le nostre idee, le
nostre passioni: raccontandole. Ciò avviene in modo particolarmente evidente per l’organicismo, tendenza sensuale in netta ripresa. A cominciare dall’attenta riproposizione, che Artek continua a fare, degli indimenticabili Alvar e Aino Aalto (vedi i cachepot in ceramica “Riihitie Road”, versione semplificata del celebre “Savoy” in vetro) per arrivare, restando nell’oggettistica, ai vasi “Fusca” di Costance Guisset per Bosa: eroticamente a forma di calla, rinunciano al bianco immacolato per vestirsi con i colori delle orchidee. Persino la tipologia dell’imbottito muove oggi le sue forme canoniche verso una citazione più organica, forse grandi sassi affusolati, come nel divano “Sydney” di Jean-Marie Massaud (uno dei designer maggiormente “statement” dell’attuale panorama) per Poliform oppure conchiglie deposte su un sasso come nella poltrona “Babled Chair” di Emmanuel Babled per Offecct Lab.
Anche i progetti che si rifanno a un più composto classicismo cercano tuttavia dettagli raccordati e sinuosi, sui quali appunto far scorrere con piacere la mano: esemplare in questo senso il lavoro di Paolo Rizzatto per Alias con la collezione di sedute “New Lady” che si prende la briga, niente meno, di coniugare l’alto artigianato con l’industria.
Quest’ultimo atteggiamento fa parte d’altronde di una tendenza assolutamente evidente che potremmo chiamare “la sindrome Hermés”: la storica maison francese della pelletteria viene ormai citata ovunque, a proposito e a sproposito, per la grande qualità della materia impiegata e per la straordinaria “cultura del fare” che ne caratterizza le lavorazioni. Ecco allora che numerosi sono i prodotti connotati dall’uso di cuoio, marmo, ottone o metalli bruniti, con dettagli di tipo “sartoriale” (vedi, ad esempio, la chaise longue “Byron” di Jean-Marie Massaud per Poltrona Frau), piuttosto che da inediti accostamenti materici (ad esempio legno scorrevole a tapparella, secondo un’antica tecnica, e pelle leggermente imbottita nelle credenze “Jabara” di Shinsaku Miyamoto per l’azienda giapponese Ritzwell).
Citato un innegabile ritorno al classico, breve è il passo che ci porta a parlare dei veri “classici”. Infatti, un trend sempre più diffuso e condiviso è senz’altro quello delle riedizioni. I grandi pezzi del passato vengono cercati, studiati, ammirati e riproposti, usualmente con notevole cura filologica (sebbene non manchino alcune evidenti e irresponsabili cadute di stile). Il pubblico (che è tornato ad ascoltare dischi in vinile, a fotografare con la polaroid e a emozionarsi per “Guerre Stellari”) comprende il pezzo sedimentato e ne apprezza il percorso storico. In questo meccanismo per di più, oltre
all’evidente connotato nostalgico, oltre al riconoscimento di un’eccezionale eleganza di disegno, gioca, per i compratori, la garanzia di un investimento destinato a durare nel tempo, al di là delle mode.
Anche in questo specifico settore possiamo notare una ricerca allargata a diversi contesti geografici, dal Brasile all’Italia (un tavolino di Pio Manzù torna da Alias), ma di certo l’estetica predominate è, in questo momento, quella scandinava. Aziende come Fritz Hansen, Carl Hansen & Son e Erik Jørgensen proseguono uno scrupoloso lavoro di riproposta, che si allarga da quelle che ormai chiamiamo, con
termine inflazionato, “icone” a pezzi più semplici quale il “Society Table” di Arne Jacobsen del 1952, riproposto da Carl Hansen & Son, per arrivare all’essenziale eleganza del tavolo “Markelius 01” disegnato nel 1930 dallo svedese Sven Markelius o al divano “EJ 270”, del 1970, riprodotto da Erik Jørgensen. Oltre che per condivisione estetica, tali pezzi vengono riscoperti anche grazie alle loro dimensioni, tipiche degli anni e dei contesti in cui furono disegnati e che rifiutano ogni “gigantismo”, tornando a parlare un linguaggio più domestico e più consono alle misure reali degli ambienti in cui andranno inseriti (quello che abbiamo chiamato “il linguaggio delle stanze”!).
A un generale ridimensionamento volumetrico tendono, tuttavia, anche alcuni tra i più capaci designer. Si veda in particolare l’importante lavoro sull’imbottito di Christophe Pillet declinato nelle
versioni domestica (per Cappellini con la collezione “High Time”), outdoor (per Ethimo, “Grand Life”) e contract (per Tacchini, (divani e poltroncine “Memory Lane”). Oggetti di dimensioni più ridotte non sono infatti in contrasto con l’estetica cosy (d’obbligo il termine inglese) oggi vincente, anzi! In un tripudio di ambientazioni accoglienti, ma mai “over”. Tale approccio “riduzionista” porta con sé un’interessante e inedita femminilizzazione: sempre che abbia senso distinguere il gender nelle attività creative, bisogna rilevare come, al Salone nel 2018, le designer donna siano assolutamente vincenti, sia in termini statistici sia qualitativi. Ad esempio Mattiazzi, azienda che si caratterizzava per la robusta lavorazione del legno massello, accoglie la delicata ironia di Inga Sempé (con la seduta “MC17”). Analogamente assistiamo a generalizzata trasformazione del lavoro delle stylist, promosse senz’altro al ruolo di designer: possiamo citare in particolare Elisa Ossino e Arianna Lelli Mami e Chiara Di Pinto, ossia lo Studio Pepe. Anche tra i giovani designer emergenti italiani, le donne sono assolutamente prevalenti (basti ricordare, tra le altre, Cristina Celestino, Francesca Lanzavecchia, Elena Salmistraro, Alessandra Baldereschi, Maddalena Casadei, Giorgia Zanellato e Chiara Andreatti).
Al mondo delle riedizioni, o sarebbe meglio dire della citazione, appartengono anche pezzi non recuperati filologicamente, ma semplicemente ispirati a mobili e atmosfere trascorse: dalla sedia di Chiavari, che conosce un enorme successo sia nelle versioni originali sia in innumerevoli repliche, al recupero della credenza italiana anteguerra (“Muriel” di Ferruccio Laviani per F.lli Boffi). Sempre a fenomeni nostalgici vanno imputati il ritorno di alcune tipologie, dal paravento alla consolle e al “servo muto”, oggetto prevalentemente
maschile che fa il paio con l’attuale, maniacale, cura per il guardaroba (vedi “Valet” di Analogia Project per Frag). Per finire con il trionfo degli specchi: così tanti da poter soddisfare un’intera generazione di narcisisti che evidentemente ne era carente. Tra i più belli, quasi operazioni di jewellery design, “Soleil” di Giorgio Bonaguro per Tacchini edizioni e “Pinch” di Lanzavecchia-Wai per Fiam. Assimilabili viceversa a opere d’arte quelli di Inga Sempé per Magis, con fitti reticoli e vetri colorati a interrompere la lastra specchiante (il nome, suggestivo, è “Vitrail”) e quelli di Marco Brunori per Adele-C (“Pablo”). Non mancano poi sofisticate “cineserie”, come la reinterpretazione di Piero Zuffi dell’oroscopo cinese da MissoniHome, e ancora fragranze per la casa, cuscini al piccolo punto nonché il grande successo della carta da parati: nemmeno Mario Praz, nella sua celebre Filosofia dell’Arredamento, era arrivato a immaginare così tanti “ritorni”!
Questo, tra l’altro, è solo uno degli aspetti del penchant nostalgico, in fondo quello più innocuamente romantico. Un altro coté della stessa tendenza parla, invece, il linguaggio dei romanzi “gotici” della seconda metà del XVIII secolo, con ambientazioni degne de “Il Trono di Spade” (anche se pare giusto ricordare l’inizio del fenomeno con il film “Il Signore degli Anelli”, tratto da Tolkien). Declina, ad esempio, un’estetica “anti-estetica” (post-industriale o pre-industriale?) la sedia “Rock”, interamente in metallo con rivetti in vista, di Marc Sadler per da a. Il fantasy è quindi, senza dubbio alcuno, una delle tendenze oggi più chiaramente distinguibili. Giustificato da fenomeni paralleli al design, quali la moda e appunto il cinema, si esplicita particolarmente nelle ceramiche, mostruose o principesche, buffe o allusive. Impossibile non citare Jaime Hayon, uno dei designer più in vista dell’anno, oppure le più sofisticate forme da cubismo poetico di
Natalie du Pasquier, per lo storico marchio Bitossi.
I tessuti non sono da meno, recuperando contemporaneamente batik africani e stampe settecentesche, con figure di uccelli esotici e draghi. Il tutto arricchito da un uso smodato di frange, indifferentemente di seta, di raffia o di rayon. Su pavimenti in marmi venati, legni anticati o cementine d’antan non possono poi mancare i tappeti, moltissimi tappeti, dai sofisticati “Shade” della giovane turca Begüm Cana Ozgür per nanimarquina, costruiti unicamente con lo sfumare dei colori uno nell’altro, alla reinterpretazione di antichi feltri nella collezione
“Sienna” di Kvadrat, concepita da Hella Jongerius.
Ecco allora che le “stanze” di cui parlavamo prima, avvolgenti e cosy, diventano stanze di museo, ma non si tratta più del “museo dei capolavori”, piuttosto, secondo la formula adottata dallo scrittore turco Orhan Pamuk, del museo del nostro quotidiano, dei nostri ricordi. A individuare una nuova forma di collezionismo fatta di mobili e oggetti che, appena pochi anni or sono, sarebbero stati cercati nei mercatini delle pulci. Mobili e oggetti a cavallo tra nostalgia e kitsch. Kitsch è infatti un altro termine che torna utile per raccontare un fenomeno attuale: ormai sdoganato da qualsiasi connotato negativo (ci aveva già pensato Gillo Dorfles, nel 1968, ma, a maggior ragione oggi, dopo la rivoluzione di Alessandro Michele per Gucci), il kitsch annovera oggetti quali il divanetto “Hot Dog” di studio Job per Seletti.it (completo di hamburger e fetta di cetriolo), così come finiture scintillanti: il glittering innanzitutto e quindi l’oro. Oro (con tutti suoi derivati: dorato, similoro, ottonato) è una parola che è tornata a risuonare fortemente nel mondo dell’arredo. Si tratterà di un esorcismo per questa crisi economica che non si esaurisce? A far da contraltare all’oro arriva però Pantone, con il suo colore per l’anno 2018, un “Ultra-Violet” che difficilmente sarà condiviso da legioni di compratori scaramantici.
Tornando all’analisi delle principali tendenze bisogna rilevare come esista un aspetto estremamente positivo che accomuna tutte le “spinte narrative” di cui abbiamo fin’ora parlato ed è la riscoperta di tecniche e saperi artigianali ormai in via di estinzione.
L’odierno approccio progettuale, massimalista, richiede infatti una grande qualità di dettagli, finiture, lavorazioni. Ecco dunque i marmi rari (il Calacatta Oro abbinato al bronzo nel tavolo “Morgan Marble” di Rodolfo Dordoni per Minotti), lo straw marquetery (o intarsio di paglia) applicato da Cristina Celestino su tavolini a forma di fiore (“Carillon” per Gebrüder Thonet Vienna) o ancora il mosaico di radica per il piano del tavolo “Ace” disegnato da Massimo Castagna per Henge. Persino materiali di più umile origine, vedi le corde nautiche nei bellissimi paraventi “Shade of Venice” di Marco Zito per Saba Italia, si valorizzano grazie all’intelligenza della lavorazione.
Naturalmente, come avviene per tutti i trend dominanti, questa forte spinta narrativa, che si declini nei termini della storia, del fantasy o del “kitsch”, porta con sé una reazione uguale e contraria. Non mancano quindi le proposte contraddistinte da un minimalismo esasperato. Potremmo dire, per proseguire la nostra metafora letteraria, segnate da un voluto silenzio linguistico. Il designer giapponese Ichiro Iwasaki immagina, ad esempio, di arredare le zone lounge degli uffici mediante essenziali sedute con piani di lavoro configurati come astratte cornici (“Kiik” per Arper), mentre il norvegese Daniel Rybakken disegna per Artek superfici specchianti in lucido acciaio a formare “angoli” riflettenti a “124 gradi” (questo il nome del prodotto). Il “silenzio” delle linee può poi sposarsi con la narratività delle finiture, come nei contenitori “Marea” di Zanellato/Bortotto per De Castelli, ove ossidazioni sovrapposte segnano le superfici quasi fosse acqua alta a Venezia, oppure con l’invenzione tipologica, vedi il progetto “Faroe” di Gordon Guillaumier per Lema che, citando il celebre “Triposto” di Gio Ponti del 1967, crea un’isola di sedute composte da cuscini e scatole contenitori. Per concludere con un segno assolutamente astratto, quasi un ideogramma, tracciato dal duo giappo-taiwanese Tamaki per Living: che poi si tratti di un appendiabiti appare assolutamente secondario.
Milano, 17 aprile 2018
Ufficio Stampa Salone del Mobile.Milano